Tra le pieghe

della storia

PASCOLI E FORMAGGI NELLE MARCHE
IL DUCATO D'URBINO

Nelle Marche quando si parla di gastronomia si fa spesso riferimento ai prodotti della civiltà contadina e peschereccia dimenticando quella pastorale.
Il Mattioni nel testo Sui passi del Meschino: pastori e greggi dei Sibillini (edito dalla Cassa Rurale di Pievetorina), sottolinea che la civiltà appenninica dei pastori va dal Catria alla Maiella, che l’unificazione di quest’area avvenne ad opera addirittura dei Sanniti e che, attraverso la transumanza, essa estese la sua influenza su aree lontane come le pianure dell’Adriatico e la Maremma.
La genetica dei luoghi di insediamento testimonia tutta la cultura della Penisola, onde è possibile ancora ai giorni nostri poter leggere sul territorio i segni di questi insediamenti, di questi fuochi di società e di comunità, di economia, che hanno dato luogo alla storia dell’arte italiana. Con queste illuminanti parole lo storico dell’arte Andrea Emiliani, chiarisce il rapporto tra paesaggio agrario e la tradizione artistica italiana e invita a leggere i segni del quotidiano, come le chiese o le pievi, anche come luogo di culto e centri di appoggio, religioso e economico, per i pastori transumanti.
In Italia una prima regolamentazione del libero transito delle greggi transumanti, attraverso lo Stato Pontificio, si ha nel 1402 con Bonifacio IX, attraverso la Dohana pecudum.
Una volta pagati pedaggi e gabelli, si legge nel testo, i pastori sono autorizzati a far pascolare le pecore sia all’andata che al ritorno in strade (tratturi) “doganali” soggette a pedaggio per una larghezza di 20 canne (una quarantina di metri circa).
Tali privilegi, sono in certi casi rimasti inalterati fino ai giorni nostri, come nel caso di Castelluccio di Norcia.
A testimonianza di questa consuetudine - per riferirsi alle parole dell’Emiliani - i pastori transumanti erano soliti fare delle soste diurne presso i luoghi di culto; durante la notte avveniva il trasferimento in altre località e dovendo attraversare anche dei paesi, era preferibile, per non arrecare fastidi, transitare con il gregge durante la notte.
Va ricordato che i terreni sulle rotte della transumanza ricevevano svantaggi e vantaggi dal passaggio delle greggi: infatti se dapprima il suolo era rassodato e il pascolo ridotto quasi all’essiccamento, era pur vero che si otteneva un abbondante fertilizzazione per il copioso letame depositato.
Tra i tipi di erbe che venivano e vengono ricercate per il buon pascolo della pecora figurano le graminacee e le leguminose.
Unite alla giusta temperatura del luogo, a una buona quantità di luce e a una sufficiente umidità, il pascolo si trasforma in luogo dalle ottime caratteristiche foraggere; i primi tepori di aprile contribuiscono inoltre a loro volta al rinnovarsi dei processi di sintesi clorofilliana.
L’area geografica in cui è stata ed è prodotta la Casciotta d’Urbino, dal punto di vista pedo-climatico è tranquilla e ha sempre garantito la produzione, in primavera, di un formaggio pregiato.
Nel Montefeltro esistono diversi tipi di formaggio.
A Urbino da sempre si trovano le “Casciotte”, piccole forme di formaggio da consumare fresco, dopo una stagionatura di appena 10-15 giorni, pure confezionato con latte misto vaccino e ovino.
Nel territorio dell’antico Ducato, da Gubbio a Cantiano, da Cagli alla Valle del Metauro fino a Carpegna, esistevano numerosi pascoli; la montuosità abbinata all’abbondanza delle sorgenti favoriva l’allevamento ovino. Per questo lo stesso Solone de Campello cita, nei confronti delle Costituzioni del Ducato di Urbino, l’abbondanza di pascoli e di ovini, tale da consentire il pedaggio minimo e irrisorio di un danaro.
La bontà dei pascoli della zona dell'Alta Valle del Metauro è testimoniata dai “Capitoli sopra il pascere del bestiame” (24 giugno 1547): nel documento infatti si parla dei permessi concessi per il pascolo delle bestie e i confini del pascolo.
Dietro pagamento di un fiorino per ogni cento bestie era possibile far pascolare anche le bestie menate da maremma, dunque condotte nelle terre metaurensi anche da altri territori.
L'affitto per l'epoca (un fiorino) risulta piuttosto alto: dunque i pascoli metaurensi erano ambiti e cari.

IL DILETTO DI MICHELANGELO

Per tutta la vita com’è noto, Michelangelo ebbe a che fare con gente di Casteldurante.
In particolare i legami affettivi più profondi li strinse con Francesco Amatori (detto l’Urbino) e con la consorte di lui Cornelia Colonnelli. Alla morte dell’Amatori la moglie Cornelia con i suoi figli (figliocci di Michelangelo), ritornò a Casteldurante.
A questo punto tra Cornelia e Michelangelo iniziò una corrispondenza costante.
Quasi sempre poi le missive erano accompagnate dall’invio, all’illustre artista, di casciotte di guaimo.
E’ presumibile pertanto che il formaggio venisse molto apprezzato da Michelangelo e in particolare quello poco stagionato.
La serie di rapporti professionali e di amicizia intessuti con abitanti delle terre del Ducato d'Urbino iniziarono presto per Michelangelo: il suo primo maestro a Firenze fu Francesco Galeota d’Urbino; tra i servitori, allievi e collaboratori ai quali si affezionò di più, vi furono Francesco Amatori e Antonio del Franzese detto Taruga; uno dei suoi collaboratori nelle ultime fatiche della fabbrica di S. Pietro fu Cesare da Casteldurante d’Urbino; le sue domestiche, che egli puntualmente cita nei suoi Ricordi, tanto quelle fidate come Lucia, Lisabetta o Benedetta o le meno fidate come Laura che licenzia nel 1560 o le scellerate come Girolama giunta nel 1559, sono di Casteldurante; le cure più dolci e paterne sono riservate ai suoi figliocci Michelangelo e Francesco Amatori figli di Cornelia Colonnelli.
Nel periodo in cui intercorrono rapporti epistolari ricchi di notazioni sul cibo inviato a Michelangelo da Casteldurante, il Maestro dimorava presso la sua casa romana di Macel de’ Corvi, che sarà la sua abitazione dal 1534 al 1564, anno della sua morte.
Francesco Amatori fu uno dei più stretti collaboratori di Michelangelo: per i lavori effettuati nell’affresco del Giudizio Universale della Cappella Sistina, la tesoreria pontificia versava quattro scudi al mese; nella Cappella Paolina, viene pagato sei ducati mensili; all’Urbino Michelangelo commissiona gli elementi ornamentali della Tomba di Giulio II e l’esecuzione del busto marmoreo di Cecchino Bracci, per la stessa Tomba.

Importante è la data 1551, quando Cornelia Colonnelli, consorte dal 20 novembre 1550 di Francesco Amatori, entra in contatto con Michelangelo.
Alla donna il Maestro si lega; le lascia con il marito una parte della casa; le fa dei doni preziosi, orecchini e stoffe, tiene a battesimo il loro primo figlio che verrà chiamato Michelangelo.
Il carteggio tra la Colonnelli e il Buonarroti rivela il carattere fiero e onesto della donna, quando difende l’eredità dei figli dai soprusi dei tutori e quando scrive della fedeltà e amore nutrito nei confronti di Michelangelo, cui più volte invia prosciutti e formaggio, invitandolo a cibarsene con gioia, pensando a lei e ai suoi figli.


1 Gennaio 1557, Cornelia da Casteldurante scrive a Michelangelo


1 Gennaio 1557, Cornelia da Casteldurante scrive a Michelangelo

Scorrendo l’epistolario vediamo quante volte si verifica l’invio del formaggio e con quali parole:

1 gennaio 1557, Cornelia da Casteldurante scrive a Michelangelo: “...Perché oggi è il dì de anno nuovo, dove a noi è usanza recognioscere li patroni, per questo mando a Vostra Signoria un fardelletto de cascio de guiamo de peso de livere otto”; poi continua più avanti : “et il cascio lo goderete per amore nostro”.

28 marzo 1557: Michelangelo da Roma risponde a Cornelia in Casteldurante: ...”Quando tu mi mandasti i caci, mi scrivesti che mi volevi mandar più altre cose”.

19 aprile 1558, scrive Cornelia a Michelangelo: “Como patre honorando messer Michelagnolo, per Pasquino mulatiere da Casteldurante vi mando doi persciutti e doi para di casci di guaime, i quali ve li godiate per amor nostro...”

18 novembre 1559: Cornelia Colonnelli, ora sposa di Giulio Brunelli, scrive a Michelangelo: ... “Michelangnolo e Francesco stanno bene, e se fanno grandi e se racomandano a voi, et io insieme con esso loro. Vi mandiamo sei casciotti de guaimo de peso de livere diece et un presciutto de livere tredece. Non ho altro che mandarvi per hora: aceterete il bon animo; e racordativi a comandarmi”.

3 dicembre 1559: scrive ancora Cornelia: “Magnifico mio da patre honorando, venendo lÏ il nostro Pasquino, non ho voluto mancare a scrivervi queste dui rig(h)e, con dirli che a questi dì pasati li mandamo per certi mulatieri uno presciutto insieme con diece libre de cascio de guaime.
Pensiamo vi sia stato dato”.

7 gennaio 1561: Cornelia assicura Michelangelo che "li putti stanno bene. Ve mando sei casciotti de guaime de peso octo libre e mezo incirca in un cestello: è piciolo presente da voi; goderetevelo per mio amore".

26 luglio 1561: è l’ultima lettera in cui compare il formaggio.
… “Le sarà contenta, per amore mio e de li putti, de goderselo - e se non scusi il pocho: è de peso de tredici libre, - insieme con quatro casciotti duri de questi nostri, da goderseli talvolta con meloni”. Cornelia chiama indifferentemente le forme casci o casciotti, anche se dello stesso peso; in occasione dell’ultima lettera citata, Cornelia allude a casciotti duri, quindi più stagionati rispetto a quelli più freschi di guaimo.

La preparazione della casciotta avviene nelle campagne del pesarese oggi come ieri, secondo l’usanza che affida alla donna il compito della preparazione del formaggio, come all’uomo viene da sempre affidato il compito di macinare il grano. Sulla base di una immemorabile tradizione il latte appena munto, veniva posto in recipienti di terracotta e poi filtrato su di un setaccio di cotone a maglia rada.
Nel contempo veniva preparato il caglio o presame stemperando in acqua tiepida una piccola parte del latte. L’operazione di preparazione del quaio coinvolgeva, per lo più, solamente le componenti femminili del nucleo familiare. Era la persona femminile più anziana, la nonna, che prendeva l’intestino di un agnello (10-20 kg), e, dopo opportuno e accurato lavaggio, a mo’ di salame, lo riempiva con del latte e posto a maturazione per 10-12 mesi. A tale periodo il quaio assumeva la consistenza tipica del formaggio. Per assicurare una buona omogeinizzazione del latte nell’intestino dell’agnello e in virtù della qualità della preparazione del formaggio, venivano utilizzati due piccoli ramoscelli senza foglia della palma benedetta.
La buona maturazione del quaio era infatti una garanzia di sana riuscita del processo di caseificazione. Questo felice connubio tra la produzione del latte qualitativamente eccellente e la paziente e scrupolosa semplicità della caseificazione si tramutava, pertanto, in uno squisito alimento a cui, molto verosimilmente, Michelangelo non doveva resistere. Per consolidare inoltre la costante presenza nella sua tavola della casciotta d’Urbino, l’Artista promosse l’accordo con i suoi referenti di Casteldurante, ad acquistare dei poderi in quelle terre del Ducato d’Urbino. Abitando l’Amatori con Michelangelo, è presumbile affermare che anche il Maestro godesse di questo cibo, che poi, più volte in futuro, la vedova dell’Amatori, Cornelia, avrà premura di inviargli a Roma.
La Casciotta figura anche tra le primizie che l’Arciprete di Mercatello fa avere al Duca d’Urbino. A Firenze, nell’Archivio di Stato, esiste un documento infatti, datato 29 ottobre 1590, che descrive l’invio da parte dell’arciprete di Mercatello al Duca di quattro formaggi dei nostri guaimi.
Anche Costanzo Felici, quando volle inviare all’amico Ulisse Aldrovandi insigne naturalista bolognese, una specialità del posto, gliene mandò, a dimostrazione della considerazione prestata dai durantini nei confronti del formaggio, sia esso fresco o stagionato.
Lo sappiamo da una lettera che il Felici gli scrisse da Piobbico il 29-2-1570, da dove la sua comare manda una mano di formaio all’illustre botanico bolognese.
Anche in occasione del pranzo offerto nel 1621 in occasione della venuta dei novelli sposi Federico Ubaldo Della Rovere e Claudia de’ Medici, nella lista del donativo mangiativo fatto dalla Comunità di Casteldurante al Duca, figura formaggio vecchio del Montefeltro n.ro 79. Ancora nel 1761 è il Cardinale Ganganelli, futuro Papa Clemente XIV, che da Roma ringrazia con una lettera l’Abate Antonio Tocci di Cagli per avergli inviato squisite casciotte.
Le radici storiche antiche e la qualità della Casciotta d’Urbino sono oggi un dato acquisito e come tali hanno favorito l’inserimento del prodotto nell’Atlante dei prodotti tipici e la denominazione di origine con Decreto del Presidente della Repubblica del 30/3/1982 ed il riconoscimento della D.O.P. da parte della Comunità Europea